Credete che gli interrogatori favoriscano le confessioni false? Probabilmente tutti risponderebbero di sì. Infatti avete ragione, ma forse state facendo una leggera associazione tra interrogatorio e tortura, che non è lo stesso.
Uno dei film che evidenzia in maniera palpabile la relazione tra tortura e confessioni false è “l’ultimo inquisitore”, con protagonista Javier Bardem. In questo film, il padre di una giovane che è stata fatta prigioniera dall’inquisizione spagnola, fa firmare a Bardem una confessione nella quale dichiara di essere un Asino (precisamente l’animale). La sua intenzione? Dimostragli che, sotto tortura, chiunque confesserebbe qualsiasi atrocità, anche la più improbabile.
Ad ogni modo, ora mi riferirò ad altre confessioni: precisamente quelle che si manifestano quotidianamente nei tribunali e che hanno come obiettivo la condanna degli imputati. Jessica Klaver, psicologa dell’Università Simon Fraser, in Canada, ha disegnato un esperimento molto peculiare, nel quale non solo si analizza come gli interrogatori inducano a mentire ma anche in quale misura questo avviene. A questo scopo si sono comparate due tecniche di interrogatorio: “minimizzazione” (quella dove si minimizzano i danni prodotti dal comportamento dell’accusato) e “massimizzazione” (dove si massimizzano i danni e la gravità delle azioni).
Duecento studenti vennero invitati a prendere parte ad un test di personalità e abilità in meccanografia. Nel momento preciso in cui si doveva sviluppare il compito meccanografico, vennero avvertiti che se avessero premuto il tasto “Alt” avrebbero potuto causare la rottura del
computer e di conseguenza si sarebbero persi tutti i dati.
Quando gli studenti premevano il tasto corrispondente alla “z”, molto vicina al tasto “Alt”, i ricercatori simulavano la rottura del computer e li accusavano di avere premuto il tasto proibito.
Il seguente passo consistette nel sottoporre gli studenti a interrogatori di minimizzazione nei quali le frasi tipiche erano: “non ti preoccupare”, “è stato solo un incidente”, prima o poi doveva accadere”, “il programma era già vecchio.” Mentre che altri studenti vennero sottoposti a interrogatori di massimizzazione nei quali si tentava di farli sentiré colpevoli con frasi del tipo: “devi avere premuto il tasto”, “su questo computer sono passate oltre 50 persone questa settimana e non era accaduto nulla”.
I risultati? Il 43% degli studenti firmò una confessione nella quale giurava il falso, cioè che avevano premuto il tasto “Alt”. Ma … al contrario di quanto si poteva immaginare, l’indice più alto di confessioni (4 volte maggiore) si verificò tra gli studenti che avevano sostenuto gli interrogatori di minimizzazione. Perché?
Probabilmente perché nella vita reale le tecniche di minimizzazione danno un falso senso di sicurezza, dato che offrono scuse morali o legali alle quali afferrarsi. Inoltre le stesse aiutano a concettualizzare le azioni come accidentali. Insomma, trasferiscono la colpa sulla vittima ed evidenziano la poca importanza dei carichi imputati al colpevole, sottraendogli parte della responsabilità. In questo modo, la persona si sente più libera di assumere una responsabilità, anche se non è sua.
Un secondo risultato sorprendente è dato dal fatto che le studentesse erano maggiormente propense a falsificare le proprie confessioni, tanto quanto gli studenti che nel test di suggestionabilità avevano raggiunto il punteggio più alto.
Fonte:
Klaver, J.R., Lee, Z. & Rose, V.G. (2008) Effects of personality, interrogation techniques and plausibility in an experimental false confession paradigm. Legal and Criminological Psychology; 13(1): 71-88.
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