
In un mondo sempre più polarizzato, in cui le convinzioni personali sono diventate vessilli identitari, è facile confondere ciò che pensiamo con chi siamo realmente. Molte persone sono orgogliose delle proprie idee, religioni, valori morali o posizioni politiche e le difendono con fervore. Tuttavia, c’è una domanda scomoda che raramente ci poniamo: viviamo davvero secondo ciò che affermiamo di credere?
Non sono le convinzioni a definire la nostra integrità, ma il modo in cui le traduciamo in azioni concrete.
Questo fenomeno non è nuovo. Nel 1934, il sociologo Richard LaPiere condusse un esperimento rivelatore. Viaggiò attraverso gli Stati Uniti con una coppia cinese in un periodo di marcato razzismo verso gli asiatici. Sebbene la maggior parte dei proprietari di hotel e ristoranti da loro visitati li abbia accolti senza problemi, quando in seguito LaPiere inviò loro dei sondaggi chiedendo se avrebbero accettato clienti cinesi, il 92 percento affermò di no.
Questo esperimento illustra il divario tra atteggiamenti, convinzioni e comportamenti, evidenziando una discrepanza tra ciò che diciamo di credere e il modo in cui agiamo realmente. LaPiere lo ha definito il “paradosso atteggiamento-comportamento”, un promemoria del fatto che le nostre azioni non sempre riflettono le nostre convinzioni.
Credenze contro comportamento: il divario tra il dire e il fare
Lo psicologo sociale Leon Festinger ha coniato il termine “dissonanza cognitiva” per descrivere il disagio che proviamo quando c’è una contraddizione tra le nostre convinzioni e le nostre azioni. Un esempio classico è quello di chi si considera responsabile nei confronti dell’ambiente, ma ricorre senza pensarci due volte alla plastica monouso.
In questi casi il nostro cervello cerca a tutti i costi di ridurre questa tensione psicologica. Abbiamo due possibilità: o cambiamo comportamento, oppure giustifichiamo le nostre azioni affinché continuino a corrispondere alla nostra identità.
Molte persone scelgono la seconda strada, il che spiega perché si aggrappano alle proprie convinzioni come se fossero la prova del loro valore morale. Dire “sono una persona giusta” o “mi preoccupo per gli altri” è confortante, ma se queste idee non vengono tradotte in azioni coerenti, perdono peso e significato.
Friedrich Nietzsche riassunse al meglio questa lotta interiore: “‘Ho fatto questo’, dice la mia memoria. ‘Non posso aver fatto questo’, dice il mio orgoglio e rimane impassibile. Alla fine è la memoria ad arrendersi“.
Il pregiudizio della superiorità morale
Un altro fattore che influenza il divario tra ciò che proclamiamo e ciò che facciamo è il “bias della superiorità morale”. In sostanza, la maggior parte delle persone ritiene di essere più etica, più giusta o più premurosa della media, anche se le statistiche dimostrano che ciò è matematicamente impossibile.
Questo pregiudizio ci fa sentire a nostro agio con le nostre convinzioni, ma ci rende anche meno critici nei confronti delle nostre azioni. In altre parole, possiamo cadere nell’illusione che sostenere determinati valori ci renda di per sé delle brave persone, senza che sia necessario sforzarci di applicarli.
Oggi questo pregiudizio è più diffuso che mai. I social media, ad esempio, hanno creato uno spazio in cui è facile proclamare determinate convinzioni senza doverle mettere in pratica. Condividere un post sulla giustizia sociale o sull’uguaglianza può farci sentire moralmente superiori, ma quanto sono in linea quei post con le nostre decisioni quotidiane? Dopotutto, “combattere” dal divano con il cellulare in mano è molto facile.
Meno discorsi, più azioni
Jean Paul Sartre diceva che “non siamo ciò che diciamo, siamo ciò che facciamo“. La vera misura del nostro carattere non sta in ciò che predichiamo, ma in ciò che facciamo, spesso in silenzio e senza cercare alcun tipo di riconoscimento sociale.
Se vogliamo davvero essere persone migliori, la strada non è quella di rafforzare le nostre convinzioni o di proclamarle con più veemenza, ma di assicurarci che le nostre azioni siano in linea con ciò che vogliamo difendere e con ciò con cui ci identifichiamo.
Dobbiamo quindi fare un esercizio scomodo: chiederci regolarmente se le nostre decisioni quotidiane riflettono ciò che diciamo di apprezzare. E dobbiamo anche essere abbastanza umili da riconoscere che avere buone intenzioni non è sufficiente o che a volte non siamo del tutto coerenti.
Carl Jung affermava categoricamente: “Sei ciò che fai, non ciò che dici di fare”, quindi la sfida più difficile non è costruire un’identità basata su idee, ma su abitudini e azioni che riflettano ciò che vogliamo realmente essere. Solo così possiamo trascendere il discorso moralistico e diventare la persona che desideriamo essere, anche quando siamo soli e nessuno ci vede.
In un mondo che spesso premia la retorica sulla sostanza, forse è giunto il momento di smettere di giudicarci per ciò in cui crediamo e di iniziare a valorizzarci per ciò che facciamo. Perché in fin dei conti non sono le nostre convinzioni a cambiare il mondo, ma le azioni che intraprendiamo.
Riferimenti:
Tappin, B. M. & McKay, R. T. (2016) The Illusion of Moral Superiority. Soc Psychol Personal Sci; 8(6):623–631.
Festinger, L., & Carlsmith, J. M. (1959) Cognitive consequences of forced compliance. Journal of Abnormal and Social Psychology; 58: 203–210.
LaPiere, R. T. (1934) Attitudes vs. Actions. Social Forces; 13(2): 230–237.
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