– Recentemente ho incontrato un uomo che aveva un’attività importante e di successo, il suo stile di vita era incredibile, era felicemente sposato e aveva molti amici che avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui. Tuttavia, fissandomi con uno sguardo molto serio mi disse che avrebbe dovuto assumere un coach per aiutarlo a “raggiungere il livello successivo”.
Stupito, gli chiesi quale fosse il livello successivo.
Rispose che non gli era chiaro, è che prorpio per questo aveva bisogno di un coach che gli mostrasse i suoi punti deboli e cosa si stava perdendo nella vita.
Era evidente che quest’uomo era disposto a spendere un sacco di soldi per risolvere un problema che non sapeva nemmeno quale fosse.
– Ah! E… cosa succede se non c’è niente da risolvere? – Gli chiesi.– Cosa intendi? – Mi chiese.
– Cosa succede se non c’è un “livello successivo”? E se fosse solo un’idea che hai in mente? Cosa succede se sei già a quel livello ma ancora non te ne rendi conto e insisti a perseguire costantemente qualcos’altro, un obiettivo evasivo? E se ti rifiutassi di goderti quello che hai già?”
L’uomo si sentì irritato da queste domande. Era evidente che non le aveva considerate. Alla fine disse:
– Sento che c’è sempre qualcosa da migliorare, succeda quel che succeda e conquisti quel che conquisti.
E chiuse qui la discussione.
Questa storia, raccontata dal giornalista Mark Manson, potrebbe essere un problema che riguarda tutti noi. E se fossimo affetti dalla malattia del “volere di più”?
La malattia del “volere di più”
Pat Riley, un famoso allenatore di basket della NBA, disse che la caduta dei Lakers dopo il suo periodo di celebrità e gloria negli anni ’80, fu dovuto al fatto che i giocatori si concentrarono troppo su se stessi e volevano sempre di più.
Ricorda che all’inizio i giocatori volevano solo vincere il campionato, ma una volta diventati campioni questo non era abbastanza. La loro attenzione si spostò su altre cose: guadagnare più denaro, fare più spot in TV, ricevere più sostegno e lodi, giocare di più, più attenzione da parte dei media e un lungo eccetera.
Di conseguenza, quello che un tempo era un gruppo coeso cominciò a logorarsi. Quando arrivò la malattia del “volere di più” (The Disease of More), come la definì l’allenatore, la chimica perfetta della squadra si trasformò in un disastro tossico.
Non è la prima squadra sportiva che passa per questa situazione e non sarà nemmeno l’ultima. Ma il punto è che tutti possiamo soffrire la malattia del “volere di più” e rimanere intrappolati nel labirinto dell’insoddisfazione costruito da noi stessi.
Il “di più” non è sempre meglio
Nel corso della storia della psicologia, gli psicologi si sono concentrati sull’analizzare cosa causasse i problemi mentali. Il loro interesse per la felicità è molto recente. Uno dei primi studi in questo campo fu un semplice sondaggio nel quale i partecipanti dovettero rispondere a due domande:
1) In una scala da 1 a 10, quanto ti senti felice in questo momento?
2) Cosa è successo che ha causato questi sentimenti?
Ed Diener, uno psicologo dell’Università dello Utah, raccolse migliaia di valutazioni da centinaia di persone di tutti i ceti sociali. Scoprì in questo modo un fenomeno sorprendente e, in un certo senso, anche piuttosto noioso.
Quasi tutti segnalarono un 7 per la maggior parte del tempo.
Nel negozio a fare la spesa. Sette. Nella partita di football di mio figlio. Sette. Parlando con il capo di una vendita. Sette.
Anche quando si presentavano problemi enormi, i livelli di felicità diminuivano in un rango da 2 a 5, ma per brevi periodi di tempo, per poi tornare ad aumentare rapidamente.
La stessa cosa accadeva con gli eventi molto positivi, come vincere la lotteria, andare in vacanza o addirittura sposarsi, le valutazioni crescevano velocemente, ma solo per un breve periodo di tempo per tornare a stabilizzarsi sul numero 7.
Questi risultati mostrano che nessuno è completamente felice per la maggior parte del tempo, ma neppure completamente infelice. Sembra che pensiamo costantemente che le cose stiano andando bene, ma che potrebbero andare molto meglio.
Questa costante del 7, a cui torniamo sempre, ci tende una trappola mortale perché ci dice: “Se potessi avere un po’ di più potresti raggiungere il 10 e mantenerlo”.
In questo modo, viviamo gran parte della nostra vita inseguendo il 10 anelato. Crediamo che saremo più felici quando avremo quel lavoro ideale, quando compreremo la casa nuova, quando andremo in vacanza in quel posto, quando troveremo l’anima gemella… Il problema è che c’è sempre questo “di più”. Desideriamo sempre di più.
In Psicologia, la ricerca costante del piacere si chiama “routine edonica”, il che significa che stiamo lottando continuamente per avere una “vita migliore”, ma alla fine l’unica cosa che otteniamo è consumare molte energie per tornare sempre allo stesso punto: il 7.
Questo vuol dire che dovremmo sederci con le braccia conserte e non fare nulla?
No, vuol dire che possiamo sentirci felici qui e in questo preciso momento e raggiungerne il 10, perché non dobbiamo condizionarlo alle cose o agli obiettivi che potremmo avere o raggiungere. C’è sempre un margine di miglioramento, ma non è necessario rinviare la nostra felicità condizionandola a ciò che possiamo o non possiamo raggiungere in futuro.
Dopotutto, nella vita, non si riassume tutto nel miglioramento continuo, avere sempre di più e andare sempre oltre. A un certo punto, la vita diventa soprattutto un gioco di compensazione. Quando raggiungiamo un certo livello, andare oltre può significare spendere troppo tempo ed energie in cose che non faranno davvero la differenza e non ci porteranno più vicino a quel 10 tanto sognato ma ci manterranno in un 7.
Pertanto, cerca di non vivere la vita come se fosse una lista di cose da fare o una montagna da scalare. La vita è piuttosto un gioco di compensazione in cui dobbiamo scegliere ciò che siamo disposti a dare per ottenere un’altra scarica di adrenalina, un altro viaggio, un altro successo…
Fonti:
Diener, E. & Diener, C. (1996) Most people are happy. Psychological Science; 7(3): 181-184.
Diener, E (1994) Assessing Subjective Well Being: Progress and opportunities. Social Indicators Research; 28: 35-89. Diener, E (1984) Subjective Well Being. Psychological Bulletin; 95: 542-575.
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