“La società della stanchezza” è uno di quei libri da leggere assolutamente. Scritto dal filosofo sudcoreano residente in Germania Byung-Chul Han, presenta una interessante visione alternativa della società in cui viviamo per aiutarci ad immergerci in noi stessi e scoprire quelle catene poco evidenti ma molto forti che ci legano, dettano molte delle nostre decisioni e determinano la nostra vita.
In che modo l’eccessiva positività ci rende schiavi?
Ogni era e società ha i suoi modelli di pensiero che inculca nei suoi membri. Non possiamo sfuggirvi. A meno di non fare un esercizio cosciente di autoanalisi e riflessione, questi ci determineranno per tutta la vita perché sono diventati i margini che limitano il nostro pensiero, al di fuori del quale non concepiamo nemmeno la realtà.
Ci è toccato vivere nella società del “Yes, you can”, una società che afferma che tutti possiamo arrivare dove vogliamo solo sforzandoci. Viviamo in un’epoca in cui la Psicologia Positiva è diventata popolare e distorta, limitandosi ad una serie di frasi motivazionali senza molta sostanza che trasmettono un messaggio chiaro: “Tu puoi!”.
Han sottolinea che “La società del 21 ° secolo non è più disciplinare, ma una società del rendimento. Né i suoi abitanti sono chiamati ‘soggetti di obbedienza’, ma ‘soggetti di rendimento’. Questi soggetti sono imprenditori di se stessi”.
Questo cambiamento, che apparentemente conferisce autorità e sembra liberatorio, diventa in realtà un boomerang che presto ci colpisce con tutte le sue forze perché nasconde un grande rischio psicologico di cui non siamo consapevoli.
La violenza della società sui suoi membri non è scomparsa, ma è stata camuffata ed ora si basa sull’auto-sfruttamento del soggetto: “Questo è molto più efficace dello sfruttamento da parte di altri, perché è accompagnato dalla sensazione di libertà. Lo sfruttatore è lo stesso sfruttato. Vittima e carnefice non possono più differenziarsi. Questa auto-referenzialità genera una libertà paradossale, che, a causa delle strutture obbligate immanenti ad essa, si trasforma in violenza […] In questa società dell’obbligo, ognuno porta con sé il suo campo di lavori forzati”.
In sostanza, la nostra società sarebbe l’evoluzione delle società disciplinari e di controllo del passato, ma in realtà non implica più libertà, ma continua ad esercitare il suo potere su ogni persona attraverso l’introiezione del “dovere”. Questa situazione ci trasforma in schiavi della sovrapproduzione, il super-rendimento (lavorativo, ludico e sessuale) o la supercomunicazione.
La stanchezza dell’io
L’esempio più emblematico dei problemi causati da questa pressione sociale per il rendimento è la depressione. Questo filosofo pensa che “In realtà, ciò che fa male non è l’eccesso di responsabilità e iniziativa, ma l’imperativo del rendimento, come nuovo mandato della società del lavoro post-moderna.
“L’uomo depressivo è quell’animale lavoratore che sfrutta se stesso, cioè: volontariamente, senza coercizione esterna. Egli è, allo stesso tempo, carnefice e vittima […] La depressione si scatena nel momento in cui il soggetto di rendimento non ce la fa più […] Il depresso è stanco dello sforzo di diventare se stesso”.
Il problema è che “Non potercela più fare – conduce ad un auto-rimprovero distruttivo e all’autoaggressività”. Quando ci rendiamo conto che non possiamo fare tutto ciò che abbiamo intenzione di fare, ci sentiamo frustrati, non pensiamo che la società ci abbia ingannati, ma ci autoincolpiamo, sentendoci incapaci.
Non capiamo di essere caduti nella trappola di cui avvertiva Zygmunt Bauman: cercare soluzioni biografiche a quelli che sono dei problemi strutturali e sistemici della società. Così si chiude intorno a noi un cerchio d’insoddisfazione che, se non stiamo attenti, potremmo trascinarci per tutta la vita.
Come uscire da quel circolo vizioso?
Han ci da un indizio in “La società della stanchezza”: “La società del rendimento sta gradualmente diventando la società del doping […] L’eccessiva positività si manifesta in forma di eccesso di stimoli, informazioni e impulsi”.
Quindi, una delle chiavi per uscire da questo circolo vizioso è il “immersione contemplativa”, fare una pausa nella nostra ossessione per la produttività ei successi personali lasciando il passo al dolce far niente, la noia e la presenza piena. Non si tratta di riposare per essere più produttivi, ma riposare per il semplice piacere di farlo. Si tratta di riconnettersi con l’essenziale, imparare a godere di più e chiedere di meno a noi stessi. Si tratta di non dimenticare che “L’eccessivo aumento del rendimento causa l’infarto dell’anima”.
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