
Durante la storia molti giudici hanno dovuto affrontare serial killer, psicopatici e persone che hanno perso la ragione commettendo atti atroci. Cos’è che determina in ultima istanza la decisione dei questi giudici? Come può l’incapacità di intendere e volere incidere nelle loro decisioni?
Ora un gruppo di psicologi guidati da Lisa Aspinwall, ha scelto di analizzare 181 casi di sentenze emesse negli Stati Uniti, alla ricerca di indizi relativi su come possa finalmente avere influito la condizione neurobiologica di una psicopatia nella sentenza.
A partire da queste sentenze hanno elaborato il loro proprio caso: un ladro che ha aggredito brutalmente il proprietario di un ristorante quando questi si negò di dargli il denaro. Ovviamente, si sono presentate diverse prove accusatorie e attenuanti, tra queste si introdusse un rapporto secondo il quale al ladro era stata diagnosticata una psicopatia, una condizione per la quale non esiste cura.
A questo punto, nella metà dei dossier veniva introdotta una prova scientifica da parte di un neurobiologo in merito alle cause della psicopatia, includendo i fattori genetici. Il neurobiologo
spiegava che questo profilo genetico porta con se anomalie cerebrali che alterano la capacità della persona di distinguere il bene dal male.
Gli psicologi chiesero ai giudici di valutare il caso e indicarono la pena massima che avrebbero chiesto per quel ladro e assassino. I giudici che lessero il rapporto nel quale non si faceva
riferimento alle cause neurobiologiche indicarono una pena detentiva media di 13,93 anni mentre quelli che ricevettero il dossier con la perizia medica si mostrarono più indulgenti, comminando all’imputato una media di 12,83 anni di reclusione.
Il lato più curioso è dato dal fatto che i giudici che si mostrarono più indulgenti, affermavano che non credevano realmente che questa persona fosse condizionata dalla malattia, ma le loro
decisioni indicavano il contrario. Forse, il semplice dubbio che gli psicopatici siano biologicamente portati a vedere determinato il loro comportamento e, che il loro senso della moralità era invalidato, era più che sufficiente per promuovere un certo grado di empatia e di indulgenza.
Certo è che questo non è l’unico studio che si è dedicato ad analizzare le motivazioni che influiscono nelle decisioni dei tribunali. Infatti, un ricerca realizzata nel 2008 ha coinvolto 330
studenti con conoscenze di neurobiologia dell’Università Statale del Colorado (anche se non si trattava di esperti dato che studiavano Diritto) ai quali venne chiesto di leggere alcune vignette relative ad un processo nel quale l’accusato aveva ucciso la moglie e l’amante.
Incluso nelle vignette veniva presentato un riassunto delle attenuanti e delle prove accusatorie. Una volta ancora, in una delle storie si introdusse una piccola variazione: si menzionava una prova relativa ad una risonanza magnetica nella quale si mostrava un attivazione delle aree frontali del cervello quando l’accusato negava di avere ucciso la moglie e l’amante (per chi non è pratico di neurobiologia indico che l’area frontale del cervello è relazionata con la capacità decisionale a livello cosciente e l’inibizione, così che ciò poteva indicare che l’accusato stava
mentendo).
Risultato? Il 76% degli studenti ai quali veniva mostrato la prova dove si indicava un cambiamento cerebrale rilevato dalla risonanza funzionale, indicò che l’accusato era colpevole. Negli altri gruppi (dove si ammetteva la prova di un poligrafo normale o dove non venivano indicate prove specifiche che suggerissero una possibile menzogna) solo, rispettivamente, il 53 ed il 47% dette un verdetto di colpevolezza.
Un dettaglio curioso fu che, gli studenti sostennero che la risonanza magnetica non avesse influito nella loro decisione.
Fonti:
Aspinwall, L. G.; Brown, T. R. & Tabery, J. (2012) The Double-Edged Sword: Does Biomechanism Increase or Decrease Judges’ Sentencing of Psychopaths? Science;
337(6096): 846-849.
McCabe, D.; Castel, A. & Rhodes, M. (2011) The Influence of fMRI Lie Detection Evidence on Juror Decision-Making. Behavioral Sciences and the Law; 29(4): 566-577.
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