
Probabilmente hai sentito mille volte la frase: “Ciò che non ti uccide ti rende più forte”. E anche se potrebbe sembrare banale, la verità è che la scienza ha qualcosa da dire al riguardo. Questa saggezza popolare si basa sul concetto di ormesi. Non si tratta di una moda passeggera o di un nuovo tipo di yoga estremo, ma di un fenomeno biologico con applicazioni molto interessanti nella nostra vita quotidiana.
Ormesi: che cos’è esattamente?
L’ormesi è un processo biologico mediante il quale una cellula o un gruppo di cellule risponde in modo adattivo a un fattore o agente esterno che, se assunto in dosi elevate, risulterebbe dannoso. Tuttavia, dosi più piccole e controllate non solo prevengono questo danno, ma hanno anche un effetto benefico sull’organismo.
È più o meno lo stesso principio alla base del famoso “chi non soffre non guadagna“. Quando sollevi pesi, senti un po’ di dolore. Ci provi con tutte le tue forze. Ti lamenti mentalmente. Ma non ti danneggi. Al contrario: i tuoi muscoli si adattano, crescono e si rafforzano. Risultato? Diventi più resiliente. Ma se provassi a sollevare 200 chili senza preparazione, probabilmente finiresti al pronto soccorso.
Dietro l’ormesi si nasconde una logica tanto semplice quanto dimenticata oggigiorno: un po’ di pressione, tensione e disagio possono essere benefici, ma troppi possono distruggerti.
L’arte di stressarsi bene
Sappiamo che piccole quantità di esposizione a tossine, calore, freddo o persino radiazioni possono stimolare una risposta adattativa nelle cellule. Invece di collassare, vengono attivati meccanismi di difesa, come la produzione di antiossidanti o proteine di riparazione. È come se il tuo corpo dicesse: “se provi a farmi male, diventerò più forte“.
Questo principio si applica anche al nostro universo emotivo. Piccole dosi di disagio o stress, se ben gestite, possono rafforzare la resilienza, cioè la nostra capacità di riprenderci dalle avversità.
In un mondo che dà costantemente priorità alla comodità e ci spinge a credere che dobbiamo avere tutto con il minimo sforzo, il concetto di ormesi è quasi rivoluzionario. Naturalmente, non si tratta di essere masochisti o di procurarci deliberatamente del dolore, ma piuttosto di capire che un po’ di disagio può far parte del processo di crescita e che non è necessario fuggire immediatamente da esso.
Uno degli esempi migliori di ormesi psicologica è lo stress. E non mi riferisco allo stress cronico che ti rende insonne e irritabile, ma piuttosto all'”eustress“, quella tensione temporanea che si manifesta quando ci si trova di fronte a una sfida, a un obiettivo o a una nuova situazione.
Infatti, uno studio condotto presso l’Università della California ha scoperto che le persone che hanno sperimentato livelli moderati di stress nella loro vita (né troppo bassi né troppo alti) erano più resilienti di quelle che vivevano in una bolla di serenità o di quelle che affrontavano una tensione costante.
Vale a dire che una piccola pressione può agire come un “vaccino emotivo”. Attiva le tue difese senza lasciarti sopraffare. Ti aiuta ad adattarti. Ti dà una dose extra di energia. Ti consentirà di pensare più lucidamente sotto pressione e ti impedirà di crollare ogni volta che qualcosa va storto.
Piccole dosi di disagi quotidiani che ci fanno crescere
Nella nostra vita quotidiana tendiamo a evitare determinate situazioni perché ci causano disagio. Cerchiamo di ignorarle o di distrarci perché non siamo in grado di “convivere con quelle emozioni”. Tuttavia, esporci a esse, piuttosto che ricorrere all’evitamento esperienziale, è ciò che ci consentirà di crescere e sviluppare strumenti di adattamento psicologico più potenti.
Il rifiuto, una “medicina” necessaria
Il rifiuto è un altro esempio di ormesi psicologica. In dosi elevate può minare l’autostima, ma può anche essere un ottimo stimolante comportamentale. Capire che non sempre sarai apprezzato, che non tutte le strade saranno aperte e che le tue idee non saranno sempre accettate, in definitiva ti dà forza. Il rifiuto è un piccolo esame di realtà che ti aiuta a sviluppare qualcosa di molto prezioso: il tuo giudizio. A lungo andare, ti insegnerà come scegliere chi vuoi avere accanto e quali battaglie vale la pena combattere.
La noia, fonte di creatività
Nell’era della stimolazione continua, la noia è in pericolo di estinzione. Tuttavia annoiarsi fa bene alla salute. Inoltre è ormetico. Naturalmente, la noia estrema o prolungata (come quella che può verificarsi in contesti di isolamento o di disoccupazione forzata) può portare alla depressione. Ma la noia quotidiana, in piccole dosi, è come una specie di digiuno cognitivo. Svuota la mente in modo che il nuovo possa entrare. Infatti, i ricercatori della University of central Lancashire hanno scoperto che le persone che restano sedute in una stanza per 15 minuti senza fare nulla risolvono il 40% in più di problemi creativi rispetto a coloro che non si annoiano.
Frustrazione controllata, addestramento alla tolleranza
Viviamo nell’era della gratificazione immediata (consegna in 24 ore, like immediati, consegna del cibo in pochi minuti). In questo scenario, nessuno sembra disposto ad aspettare. Tuttavia, la frustrazione è l’“allenamento di forza” della pazienza. Uno studio psicologico classico condotto alla Stanford University ha dimostrato che i bambini che hanno maggiore autocontrollo e sono in grado di rimandare le ricompense riescono a gestire meglio lo stress in età adulta. Curiosamente, più evitiamo la frustrazione, più diventiamo fragili di fronte all’inevitabile.
La solitudine scelta, il rafforzamento dell’identità
La solitudine indesiderata è dannosa, ma la solitudine intenzionale è come una disintossicazione emotiva. Trascorrere del tempo da soli riduce la dipendenza dalla convalida esterna, favorisce la consapevolezza e ricarica le batterie. Quando sei solo con te stesso, hai più tempo per guardarti dentro, invece di prestare costantemente attenzione a ciò che accade fuori. In questo modo, sarai in grado di scavare più a fondo nei tuoi sentimenti, di chiederti cosa desideri veramente e di formulare le tue idee al di là del rumore sociale.
Fallire (nel tempo) è un dono sotto mentite spoglie
Ricordi il tuo primo errore professionale? Quel progetto che è andato storto? Quell’intervista che sembrava ideale e che si è conclusa nel silenzio più assoluto? Beh, forse è stato più utile di quanto pensi. Perché fallire al primo tentativo, in un ambiente confinato, ha un effetto ormetico: ti vaccina emotivamente contro la paura di fallire in futuro. Infatti, può addirittura essere motivante e spingerti a impegnarti di più e a dare il massimo, come dimostrato da un esperimento condotto presso l’Università della Pennsylvania e l’Università di Chicago. La chiave è il contesto: fallire quando si può ancora imparare, correggere o chiedere aiuto crea una maggiore tolleranza al disagio di commettere errori. Ed è fondamentale innovare, correre rischi e crescere.
Discussioni meschine, terapia di relazione involontaria
Anche le relazioni umane hanno la loro versione di ormesi: le discussioni. Certo, litigare sempre non è un buon segno, ma piccoli disaccordi, tensioni e incomprensioni possono avere un effetto inaspettatamente positivo. Quando due persone hanno una relazione stretta, i piccoli conflitti possono avvicinarle (senza distruggere il legame) perché rafforzano la fiducia e la comunicazione. Queste piccole tempeste ci insegnano come negoziare, come ascoltare, come esprimere i nostri limiti e desideri e come comprendere meglio i nostri simili. Evitare l’attrito, d’altro canto, può creare un’apparente armonia, ma è probabile che questa sia fragile come il vetro e, al primo vero conflitto, si romperà.
Come applicare l’ormesi psicologica nella vita quotidiana?
Se vuoi mettere in pratica questo concetto senza diventare un monaco tibetano o isolarti su una montagna, ecco alcune semplici idee per la tua vita quotidiana:
- Includi attività volutamente scomode, dal parlare con uno sconosciuto all’allenarti al freddo. Se lo fai consapevolmente, ti consentirà di crescere.
- Permettiti di fare piccoli errori; Commettere errori senza drammatizzarli eccessivamente è un ottimo modo per sviluppare la resilienza.
- Accetta le sfide che ti spaventano un po’ (ma non troppo), fai cose che non hai mai osato fare prima. La chiave è trovare l’equilibrio tra panico e noia.
- Annota le tue piccole e scomode vittorie, tieni un diario delle “sfide superate” per monitorare i tuoi progressi e normalizzare il disagio costruttivo.
È inoltre importante applicare queste 3 regole:
- Dose minima efficace. Se una sfida ti sopraffà, riducine l’intensità. Ad esempio, invece di parlare in pubblico, inizia parlando con un gruppo più ristretto di conoscenti.
- Recupero attivo. Dopo questa piccola dose di stress, concediti del tempo per elaborarla e riprenderti. In questo modo eviterai che la tensione si accumuli e diventi dannosa.
- Progressione graduale. Esponiti gradualmente a situazioni che ti causano un certo stress. Se oggi riesci a tollerare 10 minuti di solitudine o di noia, prova a tollerarne 15 domani.
Dosaggio, non evitamento
Troppo disagio, senza preparazione, può portare a traumi. Ma troppa comodità, nessuna sfida e nessun attrito possono portare alla noia esistenziale, all’apatia o alla paura di vivere.
L’ormesi psicologica ci insegna che il benessere non deriva dall’eliminazione di tutto ciò che è scomodo, ma dal dosarlo saggiamente. Lo stress, la noia, i conflitti e la frustrazione non sono nemici; sono i “pesi liberi” nella tua palestra mentale.
Per questo è importante imparare a tollerare il disagio “buono”, quello che ci sfida senza spezzarci, che ci fa crescere senza sopraffarci. Come un muscolo che viene allenato, anche la mente si espande.
L’ormesi ci ricorda qualcosa che tutti sappiamo nel profondo: la crescita non avviene nel comfort più assoluto. Quindi se la vita ti dà dei limoni, non buttarli via. Spremili e fatti una limonata.
Riferimenti:
Mann, S. & Cadman, R. (2013) Does Being Bored Make Us More Creative? Creativity Research Journal; 26(2): 165-173.
Berger, J. & Pope, D. (2011) Can Losing Lead to Winning? Management Science; 57(5): 817–827.
Mischel, W. & Ebbesen, E. B. (1970) Attention in delay of gratification. Journal of Personality and Social Psychology; 16(2): 329–337.
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